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martedì 12 febbraio 2013

Piccola introduzione alla saga del "Trono di Spade"


Avevo deciso di mettere questa introduzione prima della recensione del terzo libro "A Storm of Swords" per spiegare in cosa consiste la saga, ma visto che è venuta un po' lunghetta pubblicherò introduzione e recensione in due post separati.


Povero Ned!, Game of Thrones, Il Trono di Spade
Dura la vita su quel trono!


A Song of Ice and Fire ("Il Trono di Spade in italiano") è una saga fantasy composta attualmente da cinque libri, A Game of Thrones, A Clash of Kings, A Storm of Swords, A Feast for Crows e A Dance with Dragons, che si dovrebbe concludere con altri due libri ancora in fase di realizzazione.  La saga ha conosciuto un successo planetario, ai livelli del caposcuola Il Signore degli Anelli, grazie alla fedele e ottimamente prodotta serie TV in onda negli USA sul canale HBO (quello dei Soprano, Six Feet Under e Boardwalk Empire, per intenderci), mentre da noi la trasmette Sky. Tuttavia, il primo libro della serie risale addirittura al 1996.

La saga quindi si è conquistata nel tempo uno zoccolo duro di appassionati fino a sfociare nel mercato generalista. Ma mentre i fan aumentavano, le uscite dei nuovi volumi andavano lentamente diradandosi: A Dance of Dragons è uscito nel 2011 a ben 6 anni di distanza da A Feast for Crows. Segno che l'autore sente la pressione degli appassionati ma nello stesso tempo vuole lavorare (si spera) con cura sulla stesura dei romanzi successivi. La vicenda narrata sta inoltre assumendo proporzioni piuttosto gargantuesche, che richiedono maggior cura nella pianificazione e nel controllare che non ci siano incoerenze nella trama.

George Martin, A Song of Ice and Fire, Il trono di Spade
Muovitiiiiiiiii!


I libri sono ambientati principalmente nel continente di Westeros, separato dal continente di Essos da uno stretto mare. All'interno del continente abbiamo tutti i tipi di clima e di terra possibili: dalle lande ghiacciate oltre la Barriera (un immensa muraglia di ghiaccio costruita per tenere lontane le popolazioni barbare dell'estremo Nord), alle terre solcate da numerosi rivoli, fiumi e laghi di Delta delle Acque, alle paludi del Collo, una stretta lingua di terra che funge da confine tra il Nord e il Sud del continente, alle montagne ricche d'oro intorno a Castel Granito, le brulle Isole Ferrose, le lussureggianti foreste intorno ad approdo del Re, fino ai deserti e al clima tropicale della penisola di Dorne.
Westeros, Essos, A song of Ice and Fire, Game of Thrones, Trono di Spade
La vagamente albionica Westeros (a sinistra) e Essos (destra), che ricorda molto da vicino la Terra di Mezzo Tolkeniana

Tutte queste terre sono in mano ad un unico Re, che domina sui Sette Regni. Il fatto che i Regni siano Sette implica infatti che un tempo non era così: Westeros un tempo era divisa in sette diversi Regni, in mano ad altrettanti Casati (da Nord a Sud gli Stark, i Greyjoy, gli Arryn, i Tully, i Lannister, i Baratheon e i Martell) che nel tempo sono stati assoggettati da un unica casata, i Targaryen, il cui possesso dei draghi aveva costituito un vantaggio strategico non indifferente.

All'inizio del primo romanzo della saga però, i Sette Regni sono in mano ad un nuovo Re, Robert della Dinastia Baratheon, che un decennio prima era riuscito in una rivolta a usurpare il trono dei Targaryen (i cui membri superstiti sono scappati in esilio a Essos). Ma come spesso succede nei cambi di dinastia, l'instabilità politica è alle porte e sul Regno incombe un'antica minaccia...

Prima ho scritto che A Song of Ice and Fire è una saga Fantasy e detto così uno si potrebbe aspettare orde di orchi, magie a profusione, elfi e nani, spade incantate e draghi sputafuoco. Bè...non è proprio così. Sì, nel mondo di Westeros ci sono i draghi, ma al tempo del primo romanzo sono ormai considerati estinti. Non sembrano esserci altre civiltà oltre a quella umana e la magia sembra essere cosa piuttosto rara. Se non fosse per certi piccoli aspetti, A Song of Ice and Fire potrebbe benissimo essere la storia di un mondo immaginario di tipo medioevale.  

Il sistema feudale che vige nel mondo di Westeros è descritto nei minimi dettagli araldici: oltre alle sette Casate principali ci sono decine e decine di case minori, ognuna con il proprio stemma, la propria storia e le proprie peculiarità. Nulla è lasciato al caso e tutto (ma proprio tutto), perfino le decisioni che un signore feudale deve prendere ogni giorno vengono descritte in maniera dettagliata e sono organiche allo sviluppo della trama, che quindi fa leva in misura maggiore sugli intrighi politici che sull'azione vera e propria.

Non si può certo dire che Martin si sia trattenuto dal costruire un mondo che brilla di luce propria, con la propria storia, la propria mitologia, tradizioni e religioni. Certo, i Sette Regni di Westeros strizzano l'occhio ai Regni Medioevali europei, mentre le popolazioni di Essos ricordano molto da vicino la Civiltà Araba e quelle esotiche del Vicino e Lontano Oriente, ma il risultato finale è comunque un mondo credibile e memorabile.

I romanzi vengono narrati seguendo il punto di vista di diversi personaggi, e questa tecnica permette da un lato di vedere la storia da diverse angolazioni, anche in contrasto tra loro (in questo modo non si ha una percezione ben definita di chi si può considerare "buono" e chi "cattivo), dall'altro, se certe vicende coinvolgono personaggi non seguiti dal narratore, queste vengono riportate in maniera indiretta. Molte battaglie ad esempio non vengono nemmeno descritte, ma ci viene narrato dei suoi esiti così come li vengono a sapere chi non ha partecipato. Grazie a questo stratagemma è possibile mantenere alta la tensione ed è una ventata di aria fresca rispetto ai romanzi fantasy costuiti da una successione interminabile di battaglie e scene di raccordo.

Inoltre, contrariamente ai dettami del genere, ma anche della narrativa tout cour, in A song of Ice and Fire nessuno è al sicuro, nemmeno i protagonisti, che possono letteralmente morire da un momento all'altro, compresi quelli seguiti dal punto di vista del narratore. Siete avvertiti!

Ho letto i primi tre romanzi della saga sul mio fido Kindle, in lingua originale. Ho deciso di leggerli in inglese per vari motivi: un po' per sfida personale, volevo vedere se ero in affrontare un tomo di mille pagine in inglese e in ciò il dizionario integrato del dispositivo Amazon non poteva che venirmi in soccorso e un po' perchè sono rimasto sconcertato dalla politica di Mondadori (l'editore italiano della saga).

Mondadori ha deciso di dividere i vari volumi della saga in diversi sottovolumi di circa 300 pagine: il primo e il secondo sono stati divisi in due, il terzo, il quarto e il quinto in tre ciascuno. Naturalmente però il prezzo dei volumi italiani corrispondeva grosso modo al prezzo di un volume (quello intero) in edizione paperback inglese! Insomma, per leggere in italiano la saga dovevo spendere grosso modo il triplo. Questa abitudine degli editori italiani, usata chissà perchè soprattutto con la fantascienza (sto dicendo a te Rizzoli!) e il fantasy è particolarmente fastidiosa e dimostra una mancanza di rispetto nei confronti del lettore.

Inoltre l'edizione Mondadori è veramente tradotta in maniera superficiale (da Alan D. Altieri, che è perfino un autore di romanzi a sua volta!): vi basti sapere che fin dal prologo ci sono errori inspiegabili, come cavalieri che vanno a nord-est invece che a nord-ovest e occhi rossi come il sangue quando in originale erano semplicemente rossi!

Siccome un minimo di inglese lo conosco, ho deciso di leggere l'opera in originale. E non mi sono pentito della mia scelta: l'inglese usato da Martin è un po' arcaico ma molto scorrevole, e una volta imparati termini tipici medioevali la lettura procede spedita. Il mio consiglio, se volete iniziare a leggere la saga, è di fare uno sforzo e di leggere direttamente in inglese, con buona pace del colosso di Segrate.

lunedì 4 febbraio 2013

Ore Giapponesi

  • Titolo: Ore Giapponesi
  • Autore: Fosco Maraini
  • Casa Editrice: Corbaccio
  • Pagine: 524
  • Letto su: Cartaceo














Uno sente alle Invasioni Barbariche il racconto dell'esperienza giapponese di Fosco Maraini fatto dalla figlia Dacia e pensa che Fosco Maraini in Giappone ci tornerebbe solo armato di Kalashnikov e Napalm; e invece Fosco Maraini in Giappone ci è tornato nel 1952 e il resoconto (anche fotografico) di quel viaggio costituisce Ore Giapponesi.

Maraini viveva in Giappone, per la precisione a Kyoto, dove insegnava italiano, quando i giapponesi attaccarono Pearl Harbor nel 1941. Ed era sempre lì l'8 settembre 1943, quando l'Italia si ritirò dall'Asse. In seguito all'armistizio Fosco e la sua famiglia (moglie e due figlie, Dacia e Yuki) furono imrpigionati in un campo dalla polizia giapponese insieme ad altri prigionieri politici italiani, dove soffrirono fame e umiliazioni, raccontate con dovizia di particolari in uno degli ultimi capitoli del libro; scelta che si rivela estremamente saggia, in modo che il resoconto di Maraini del Giappone non possa venire offuscato da pregiudizi relativi alla lettura della cronaca di prigionia.

Fosco Maraini, ore giapponesi, Ainu
Fosco Maraini
Nel resto del corposo libro Maraini ci regala un affresco piuttosto completo del Giappone. C'è davvero di tutto: dalla storia millenaria (comprese le origini mitologiche), alla letteratura (su tutti il Genji Monogatari), la figura dell'Imperatore, la religione (un eterogeneo connubio tra Buddismo e quella strana religione pseudopagana che va sotto il nome di Shintoismo), il cibo, l'architettura (compreso uno studio comparato sulla struttura della pagoda nell'area asiatica), il rapporto dei giapponesi con la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale e la bomba atomica, lo stato della società e delle città nel Dopoguerra. Non lesina di parlare di argomenti piuttosto scomodi, come il problema degli "intoccabili" nella società giapponese e la crescente passione per i giapponesi per il Pachinko, che Maraini aborrisce totalmente

Negli anni '50 il Giappone somiglia molto all'Italia nello stesso periodo: due nazioni uscite sconfitte dalla guerra ma in grande fermento, in cui si intuisce l'inizio del boom economico che porterà entrambi i Paesi ad essere tra i più industrializzati al mondo. In questa edizione inoltre Maraini ha aggiunto alla fine di ogni capitolo delle note in cui sottolinea le differenze tra il Giappone degli anni '50 e quello degli anni '80, ormai grande potenza mondiale, ma prima dell'esplosione della "grande bolla" degli anni '90 che ha portato il Giappone in una situazione di stallo che perdura ancora oggi, con la montante concorrenza della Cina a livello politico ed economico.

In tutto il libro si intuisce l'intenso amore che Maraini prova nei confronti del Giappone e la sua solida preparazione a livello antropologico (Maraini era uno dei più grandi esperti al mondo del popolo Ainu che abita l'isola più settentrionale del Giappone, l'Hokkaido), con uno stile sorprendentemente fresco e chiaro. Ogni tanto si abbandona a qualche lirismo di troppo (ma autori della stessa generazione sono molto peggio da questo punto di vista) ma nel complesso il libro è invecchiato molto bene e risulta godevolissimo ancora oggi.

Leggendo Ore Giapponesi ci si chiede come sia possibile che permangano ancora tanti stereotipi nell'immaginario comune sulla terra del Sol Levante, quando Maraini già nel 1952 ci forniva in un unico libro un mirabile compendio del Giappone, senza far leva sull'esotismo o utilizzando i filtri della Cultura occidentale per descrivere un'altra cultura, completamente diversa e particolarmente complessa e difficile da penetrare e per questo, almeno per me, affascinante.

Quattro stelle su cinque, lo consiglio a tutti, sia a chi è a digiuno di cultura nipponica, sia a chi ne è appassionato e vuole andare più in là del Giappone descritto nei manga o negli anime.

martedì 27 novembre 2012

I senza-tempo

  • Titolo: I senza-tempo
  • Autore: Alessandro Forlani
  • Editore: Mondadori (Urania 1588)
  • Pagine: 216
  • Letto su: cartaceo 
  • Note: nel volume sono presenti anche due racconti, uno di Marco Migliori e l'altro di Dario Tonani









Il romanzo di Alessandro Forlani, uscito a Novembre 2012 nella collana Urania classica (per chi di voi fosse vissuto fino ad adesso su Marte, Urania è una collana mensile di fantascienza da edicola che esce, nel bene e nel male, ininterrottamente dal 1952) è riuscito nel non facile intento di far parlare di sè in lungo e in largo per la Blogosfera. Ne hanno parlato meglio di quanto potrò fare io Davide Mana su Strategie Evolutive e Argonauta Xeno sull'omonimo blog .

E' importante che il romanzo ottenga recensioni e discussione all'interno del fandom, perchè I senza-tempo è anche vincitore del Premio Urania, il più importante riconoscimento per la narrativa fantascientifica italiana, e del premio Kipple . Discutere di questo romanzo in un certo senso è quindi tastare il polso del livello della fantascienza in Italia.

Siamo di fronte a quello che gli inglesi chiamerebbero "novelette": il romanzo è infatti molto breve, 105 pagine. La brevità però non impedisce a Forlani di raccontare una trama compiuta, dove non manca una buona dose di azione e adrenalina e di tratteggiare in pochi ma efficaci passaggi il mondo in cui si svolge la vicenda. I senza-tempo si svolge in Italia (con buona pace di Fruttero & Lucentini, che sostenevano che non era possibile ambientare un romanzo di fantascienza nel Bel Paese), fotografata in tre scansioni temporali: nel 2012, 2024, 2036. Quello che salta subito all'occhio è che nell'Italia del 2024 e del 2036 quasi nulla è cambiato rispetto a 12 e 24 anni prima: niente mirabolanti innovazioni tecnologiche, niente cambiamenti sociali, l'Italia del futuro prossimo sembra calata in una bruma che mantiente tutto in stasi (il tema del tempo come avrete intuito è cardine dell'intera vicenda). Anzi, invece del progresso che di solito si associa al futuro, per Forlani ciò che attende l'Italia è un lungo e malinconico viale del tramonto: nessuna prospettiva per i giovani, malfunzionamento delle reti elettriche soprattutto in provincia e di Internet in tutto il paese, che diventa un medium in secondo piano rispetto all'onnipresente televisione.

L'Italia dei senza-tempo è un posto che prima di tutto ha perso la speranza, in cui intere generazioni si sono arrese (penso al personaggio di Stefano). E' un posto in cui i Senza-tempo, perversi negromanti che vivono in mezzo a noi, manovrano dietro le quinte e sono in grado più facilmente di altre epoche di mantenere lo status quo, di stringere le proprie grinfie sulla realtà. Ma il potere di stasi italiano è così forte che persino i Senza-tempo si sono arresi a vivacchiare in un'esistenza borghese, che viene minacciata dal risveglio di Monostatos, un Senza-tempo di altri tempi e altro linguaggio (per la precisione del Seicento), il cui unico scopo è l'assoggettamento di tutto sotto la propria volontà insaziabile.

Ad opporsi a lui tre giovani che già avevano incontrato Monostatos durante l'infanzia (una reminiscenza dell'It kinghiano) e una fotoreporter all'apice della sua carriera, per la quale deve ringraziare proprio il neo-risvegliato Senza Tempo.

La narrazione di Forlani è un po' schizofrenica: salta freneticamente nello spazio e nel tempo, anticipando o ritardando gli eventi. Nelle intenzioni dell'autore questo stile dovrebbe imitare il montaggio serrato che si ha nel cinema. Sicuramente il ritmo ne giova, ma ho trovato che il romanzo ne esca un po' sballato: la costruzione della tensione e della suspence è imperfetta, abbondano gli anti-climax. Forse è un effetto voluto ma potrebbe anche indicare qualche lacuna nel controllo della narrazione.

Forlani fa abbondante uso di immagini horror, quasi splatter: ma le descrizioni sono asciutte e soprattutto sono improvvise, nette, come la lama di un rasoio. Non indugia mai su qualche particolare sgradevole, non si abbandona mai all'autocompiacimento.

Forlani, come altri autori di fantascienza italiana, adotta un punto di vista essenzialmente pessimistico. Questo atteggiamento l'ho già riscontrato in Vittorio Catani e Vittorio Curtoni (qui la recensione di Dove stiamo volando), due pesi massimi della fantascienza italica e anche Valerio Evangelisti ci prospetta un futuro difficile: sembra che per la fantascienza nostrana la speranza in un futuro migliore sia praticamente nulla. E' probabile che, vista la situazione attuale, abbiano ragione loro, ma mi piacerebbe vedere nei nostri autori un atteggiamento più ottimista, più speranzoso. I momenti di crisi infatti spesso sono anche momenti di opportunità, ed è anche compito della narrativa dell'immaginario quale è la fantascienza tratteggiare futuri possibili dove non tutto va per il verso sbagliato.

Accompagnano il romanzo cinque racconti legati tra loro dalla presenza dei senza-tempo. Anche questi sono racconti cupi, in cui l'Italia è spacciata. Addirittura nell'ultimo racconto, All'inferno Savoia!, si evince come il destino dell'Italia fosse segnato fin dall' inizio.

Sarà l'influenza de "Il tempo è un bastardo" (uno dei migliori romanzi del 2012 sin qui), ma trovo che sarebbe molto interessante leggere una raccolta di racconti interconnessi tra di loro a tema Senza-Tempo. Trovo che il romanzo a mosaico sia un tipo di narrazione particolarmente adatto al tema del tempo.

Accompagnano il romanzo e i racconti di Forlani due ulteriori racconti, "Lo scambiatore" di Marco Migliori, vincitore del Premio Stella Doppia e "Suburbi@ Drive" di Dario Tonani. Il primo è un racconto di stampo classico con qualche influenza Dickiana, bello, il secondo ambientato sulla strada e dal retrogusto punkeggiante, che mi ha lasciato un po' freddino.

In conclusione, nel complesso dò al volume tre stelle su cinque, in attesa di leggere altro di Forlani.

lunedì 29 ottobre 2012

Un Polpo alla gola

Un polpo alla gola, Zerocalcare, Bao Publishing
  • Titolo: Un polpo alla gola
  • Autore: Zerocalcare
  • Editore: Bao Publishing
  • Pagine: 192
  • Letto su: Cartaceo 






Ho conosciuto Zerocalcare (nome d'arte di Michele Rech) grazie ad una botta di sfiga: la rivista di fumetti Canemucco. Edita da Coniglio Editore, la rivista era il parto geniale della mente di Makkox, talentuoso fumettista italiano che si era già fatto una discreta fama su internet.


 Inizialmente programmata come testata mensile, distribuita in fumetteria e in edicola (quindi con una tiratura piuttosto cospicua), Canemucco ha visto vedere la luce, dopo svariati ritardi e lo spostamento della distribuzione solo in fumetteria, per 4 dei 6 numeri programmati.
Canemucco, makkox, zerocalcare
Il quarto e ultimo numero di Canemucco


 Il motivo? le scarse vendite, purtroppo. Peccato, perchè era un progetto interessante: oltre alla serie principale di Makkox, la rivista dava spazio anche ad altri giovani fumettisti. Ed uno di quelli era proprio Zerocalcare: protagonisti delle sue storie il suo alter-ego, accompagnato da un simpatico armadillo che fungeva da spalla/voce della coscienza. Un rapporto che ricordava molto due Calvin & Hobbes cresciuti.

Per nostra fortuna, nonostante il fallimento del progetto, Marco Dambrosio, (l'uomo che sta dietro al fumettista Makkox) decise di dare fiducia a Zerocalcare e di produrre per conto proprio il suo primo volume a fumetti: nacque così "La profezia dell'armadillo". Inoltre, Zerocalcare decise di aprire un blog in cui a scadenza regolare venivano pubblicate delle strisce complete, la cui qualità era uguale se non superiore a quella che si poteva apprezzare sul Canemucco.

profezia dell'armadillo, Zerocalcare, Makkox
Il volume prodotto da Makkox
 Nel volume erano presenti storie già pubblicate sul canemucco e sul blog ma unite tra loro da un filo conduttore, segno che Zerocalcare le aveva ideate come un unico blocco di storie. Inizialmente prodotto in poche copie, il fumetto ebbe un successo notevole grazie al tam tam su internet, tanto da costringere Makkox a stamparne altre copie. Ma evidentemente l'autoproduzione non era abbastanza perchè una giovane casa editrice, la Bao Publishing, decise di farne una nuova edizione a colori (La profezia dell'armadillo - colore 8-bit). E decisero di pubblicare anche il successivo lavoro di Zerocalcare, Un Polpo alla gola.

In questo secondo lavoro "completo", Zerocalcare non abbandona lo stile che lo ha reso famoso con le storie dell'armadillo: autoreferenzialità a go-go e citazioni pop pescate a piene mani dall'immaginario comune dei giovani cresciuti negli anni '80-inizio anni '90 (la generazione che è stata recentemente definita in un saggio "La generazione Bim-Bum-Bam"), che oggi si trovano ad affrontare una fase della vita in bilico tra la fine della giovinezza e l'inizio dell'età adulta (Zerocalcare la chiama "l'adolescenza lunga"). Fase che è sempre più lunga, complice una serie di fattori esterni, in primis l'incertezza lavorativa. L'alter ego di Zerocalcare interagisce con diversi personaggi della cultura popolare (Ken-shiro, i cavalieri dello zodiaco, Darth Vader), a metà tra un soliloquio con la propria coscienza a là John Dorian di Scrubs e un dialogo immaginario. In "Un polpo alla gola" però c'è anche molto di più (e un armadillo in meno): la storia è divisa in tre segmenti narrativi, durante le quali osserviamo la crescita di Zerocalcare, dall'infanzia, all'adolescenza alla fase adolescenziale/adulta attuale. Possiamo quindi dire che rispetto all'universo delineato da Zerocalcare nelle sue storie, "Un polpo alla gola" funge da prequel, nel quale ci viene narrato come l'alter-ego fumettistico di Zerocalcare è diventato come lo conosciamo. E non abbiamo solo una storia di formazione personale raccontata con ironia: abbiamo anche una sottotrama drammatica, proprio come nella Profezia dell'armadillo. Zerocalcare non usa le citazioni popolari fini a sè stesse, ma le sfrutta a fini narrativi: a mio parere riesce a descrivere lo zeitgeist della propria generazione (che è poi anche la mia) in maniera perfetta.

Per me, che sono nato del 1986, l'immedesimazione con le vicende raccontate da Zerocalcare è infatti quasi completa: le vicende scolastiche, il rapporto con i compagni di classe e soprattutto con quegli oggetti misteriosi che erano (già allora) le compagne di classe, i feticci (come il supremo Gambeboy). Il lato negativo dello stile di Zerocalcare è giocoforza che per lettori più anziani (e in futuro più giovani) è più difficile riuscire a cogliere tutti i riferimenti presenti nelle tavole di Michele Rech: potrebbero non essere coinvolti come chi le vicende narrate le ha davvero vissute. 

Ciononostante consiglio a tutti di recuperare entrambi i volumi e seguire Zerocalcare su internet: per chi è arrivato prima è un occasione per cercare di capire i propri figli/nipoti, per chi arriverà dopo sarà un occasione per comprendere i propri padri.

Quattro su stelle su cinque, non gli dò il massimo perchè voglio sperare che Zerocalcare abbia in serbo ancora molto.  

giovedì 25 ottobre 2012

Citate i traduttori!

Oggi sono finito sul blog di Silvia Pareschi, traduttrice di molti autori americani (tra cui DeLillo, Franzen, McCarthy), di cui sicuramente ho letto delle traduzioni (il nome non mi era nuovo).

Mi è caduto l'occhio su questo bannerino

Silvia Pareschi, blog, traduttori, recensioni

E mi sono sentito un po' una merda. Questo sarà anche un blog frequentato da qualche decina di persone, ma nelle mie recensioni non ho mai citato il traduttore. In questi giorni aggiornerò quindi tutti i post per citare i traduttori. E se anche voi avete un blog di recensioni o ne leggete uno e non vedete comparire il nome del traduttore, chiedete che venga messo!

giovedì 4 ottobre 2012

Running Dog

Running Dog
  • Titolo: Running Dog
  • Autore: Don DeLillo
  • Traduttrice: S. Pareschi
  • Editore: Einaudi
  • Pagine: 260 pagine 
  • Letto su: Kindle





Vedete, il mio problema con Don Delillo è che è considerato un autore postmoderno. Anzi, uno dei capostipite della corrente postmoderna letteraria. E a me il postmoderno piace. O meglio, la situazione è un po' più complessa, ma certe opere postmoderne mi sono piaciute da impazzire (Infinite Jest, L'Opera Galleggiante), altre (Comma 22 su tutti) mi hanno lasciato freddo se non apertamente seccato. Ma le premesse del genere mi convincono, e mi trovano in sintonia.

Di DeLillo ho provato anni fa a leggere Underworld, che è considerato uno dei suoi capolavori, ma dopo il prologo ho interrotto la lettura: non mi ha proprio preso. Fortuna vuole che l'autore di origine italiana ha scritto svariati romanzi e grazie all'offerta di Einaudi sugli ebook in concomitanza dell'uscita di Cosmopolis, il film di David Cronenberg tratto dal romanzo omonimo di DeLillo, ho pensato di dargli una seconda possibilità con Libra e questo Running Dog. La scelta si è rivelata azzeccata.

Running Dog ruota interamente attorno ad un film: non un film qualunque, ma una potenziale bomba socio-storico-mediatica: una pellicola amatoriale girata nel bunker sotto Berlino nel 1945, durante gli ultimi giorni di vita di Hitler. Ma non una pellicola qualsiasi: un film porno, un'orgia che annovererebbe tra i protagonisti nientepopodimeno che il fuhrer in persona.

La presenza di questa fantomatica pellicola attira gli interessi di diverse persone: a partire dall'intermediario Newyorchese in possesso dei contatti giusti con i proprietari della pellicola, che fa da punto di incontro tra gli interessati: un giovane magnate dell'industria porno che se ne sta rintanato fisicamente dietro un magazzino e legalmente dietro una serie di società di comodo (e che ricorda molto il protagonista di Cosmopolis), un funzionario governativo di secondo grado che sta trattando l'affare per conto di un senatore degli Stati Uniti, avido collezionista di arte pornografica; il capo di un'agenzia d'intelligence deviata del governo chiamata CCP/URE.

Quando sono andato a vedere io il film eravamo in quattro, ma non so quanto avrei dato per vedere la faccia delle fan di Twilight alla fine del film.


Caso vuole che una giornalista della rivista antagonista "Running Dog" stia facendo un pezzo sul senatore, che guarda caso è a capo della commissione di indagine sull'operato della CCP/URE. La prima parte del libro si focalizza sulla ricerca della pellicola (esiste veramente? contiene veramente quello che si vocifera?) e ai tentativi da parte della giornalista di saperne di più sui rapporti tra senatore e CCP/URE, che sono un coacervo di doppiogiochisti e agenti infiltrati. Nella seconda parte l'importanza della ricerca della pellicola passa in secondo piano: la volontà di possesso del film innesca una sequenza inevitabile di eventi per tutti i personaggi.

Ad una prima analisi il libro potrebbe essere considerato come un semplice thriller: clima da complotto paranoide, reduci di guerra assetati di potere, mafia, politici corrotti. In realtà lo stile di DeLillo e il suo modo di narrare rendono il romanzo più una grossa riflessione sull'ossessione del mondo occidentale in generale e Americano in particolare per il potere, per il fluire degli eventi. 

In una magistrale descrizione di oggetti per la manutenzione delle armi, da fuoco e da taglio, si ritrova la concezione di DeLillo per la scrittura: il personaggio nel romanzo sostiene che il nome degli strumenti è importante, la conoscenza dei nomi li fa funzionare meglio. Nello stesso modo la prosa di DeLillo è particolarmente curata, ogni parola finemente cesellata tra le altre. 

In conclusione un romanzo veramente solido, il cui intento allegorico è apparentemente mascherato dalla trama da thriller cospirazionista. L'unico neo è che alla fine del libro DeLillo sembra faticare nel tirare le somme dei diversi personaggi, alcuni dei quali vengono liquidati frettolosamente.

Tre stelle su cinque 

mercoledì 3 ottobre 2012

Dove stiamo volando


dove stiamo volando  

 E' brutto iniziare un blog con una stroncatura, ma questo è quello che ho letto recentemente.
Qualche mese fa sono andato con la mia ragazza a Genova, a vedere una mostra di Van Gogh. Ad un certo punto passiamo davanti all'edicola e, quasi meccanicamente, butto un occhio allo spazio dedicato agli Urania. Mi cade l'occhio sulla copertina che vedete qui sopra. 

"Vittorio Curtoni, questo nome non mi è nuovo". Ripesco da qualche angolo della memoria: curatore della rivista di fantascienza Robot. Mi avvicino, prendo il libro e guardo la quarta di copertina: è compaesano (eravamo entrambi di Piacenza. Uso il passato perchè lui non è più tra noi, e io non sono più a Piacenza). La combo campanilismo-fantascienza me lo fa acquistare al volo.

Durante il viaggio di ritorno in treno, mi metto a sfogliare il volume, che appartiene alla collana "Urania Collezione": contiene un romanzo di circa 120 pagine (gli inglesi lo chiamerebbero "novelette") che dà il nome al volume, sei racconti e un saggio dal titolo esplicativo "La mia love story con la fantascienza" in cui Curtoni racconta la propria carriera lavorativa nel campo dell'editoria italiana di fantascienza. Ai testi di Curtoni si aggiungono una esaustiva bibliografia e il ricordo del curatore di Urania, Giuseppe Lippi, che dello scrittore piacentino recentemente scomparso era stato collega di lavoro e amico.

Decido di iniziare dal saggio: bellissimo,  scorre che è un piacere e racconta di come un Curtoni liceale e con la passione per la fantascienza sia riuscito a farlo diventare un lavoro. Il contesto è quello dell'Italia degli anni '60-'70, delle prime avventure editoriali in campo fantascientifico (considerato anche allora "robaccia di serie B"), delle prime convention dedicate. Curtoni racconta tutto dal suo punto di vista e senza peli sulla lingua: i propri successi e fallimenti, i litigi e gli errori e infine la sua uscita dalla scena pubblica, negli anni '90. Ne emerge un ritratto sincero, ma soprattutto una passione sconfinata per la fantascienza.

Con entusiasmo mi accingo quindi a leggere il romanzo e i racconti. E passano dei mesi. Ho infatti ripreso in mano "Dove stiamo volando" solo qualche settimana fa. Quando di un libro ho aspettative molto alte tendo infatti a rimandarne la lettura in attesa di un fantomatico "momento perfetto" (ne parlerò più approfonditamente in un post dedicato): naturalmente questo momento non arriva mai e finisco per arretrare il libro nella pila dei volumi da leggere.

Per "Dove stiamo volando" decido finalmente di rompere gli indugi e mi addentro nella lettura: delusione totale!

L'incipit di "Dove stiamo volando" (il romanzo) è rappresentativo dello stile di scrittura che Curtoni manterrà per tutta l'opera: raccontato in prima persona, con una prosa barocca che abbandona spesso e volentieri la descrizione di ciò che sta avvenendo per divagazioni poetico-oniriche e giudizi morali.

La storia è piuttosto lineare, ma del resto non è il fulcro del romanzo: Charles è un mutante (la cui mutazione verrà rivelata solo a metà storia) che decide di andare a vivere in una comune di mutanti a Nuova Parigi, detta il Ghetto (il cui nome già non invoglia al trasferimento in massa). Purtroppo per lui decide di andare nel posto sbagliato nel momento sbagliatissimo. La storia è ambientata in un'Europa post-Olocausto nucleare, in cui umani e mutanti vivono non proprio in sintonia.

La sensazione che si ha, leggendo il romanzo, è che Curtoni voglia, nell'ordine:

  1. Far vedere quanto è bravo a scrivere frasi ad effetto ("Guarda mamma, senza mani")
  2. Scrivere un libro di fantascienza che sembri un romanzo mainstream, come se si vergognasse di ammetterne il genere
Il risultato finale è un romanzo molto pretenzioso, il cui autore vuole disperatamente essere preso sul serio in quanto scrittore tout-court, non in quanto scrittore di fantascienza. I casi sono due, o si vergogna di appartenere al genere, oppure vuole disperatamente dimostrare che in un romanzo di fantascienza si può calcare la mano sull'aspetto formale, invece di raccontare e basta. Data la professione di amore per il genere che si evince dal saggio, propendo per la seconda ipotesi.

Forse il mio giudizio negativo risente anche di una mancata prospettiva storica: lo scritto è del 1972. In quegli anni la fantascienza era ancora vista, in Italia, come "navicelle spaziali e alieni tentacolari verdi" (non che la visione sia cambiata di molto, ma questa è un'altra storia). Naturale quindi che autori come Curtoni cercassero di allinearsi agli autori anglosassoni e osare di più dal punto di vista stilistico e filosofico. Il risultato però è fin troppo eccessivo: Curtoni sacrifica la narrazione sull'altare della poetica, ma lo fa in maniera vistosa. Per dirla con un'espressione in inglese: "He tries too hard".

Nei sei racconti la situazione migliora dal punto di vista della narrazione. Ho apprezzato molto la scelta, in alcuni racconti, del punto di vista multiplo per raccontare la storia. Anche qui è presente un certo gusto per la prosa barocca e per una narrazione opaca: spesso è faticoso capire cosa sta succedendo esattamente. Ma in questi racconti l'artificio narrativo funziona meglio che nel romanzo (penso soprattutto al racconto "La sindrome lunare"). Belle anche alcune chicche meta-narrative che Curtoni semina qua è là per ricordarci che stiamo leggendo un'opera di fiction e per scherzare sulla natura della parola scritta.

Il grosso limite dei racconti, almeno per me, è che le vicende trattate non sono abbastanza interessanti ("Ritratto del figlio"), o non riescono ad essere raccontate in modo che ci appaiano tali ("L'esplosione del minotauro"). A volte Curtoni si abbandona ad un voluto ermetismo ("La volpe stupita"), mentre in "Vento dal mare" l'elemento soprannaturale ed un pizzico di Horror non riescono a salvare un racconto che è soprattutto un esercizio di racconto realistico.

L'impressione finale di questa antologia è che a Curtoni, la cui occupazione principale era quella di traduttore ed editor, manchi quel quid che hanno i grandi scrittori e che non riesca a colmarla grazie alla sua cultura del genere. Oltre ad un incredibile senso di inferiorità nei confronti della letteratura in senso "lato"

In conclusione, con grande amarezza ho dovuto dare 1 stella su 5.

Hello World! (Ovvero, neanche il primo post è originale)

Mi trovo un po' in imbarazzo a scrivere questo primo post. Probabilmente verrà letto tra qualche giorno. O non verrà letto affatto perchè abbandonerò l'idea di tenere un blog con la stessa velocità con cui ho deciso di schiacciare il bottone "Crea un blog". O forse verrà letto dopo che qualcuno si sarà spiaggiato su questi lidi grazie ad un tag ben piazzato o grazie alla recensione di un libro che, guarda caso, stava pensando di comprare.

Dovrei quindi stupirvi con una prosa spumeggiante, o raccontarvi quale grande visione sta dietro alla scelta di aprire questo blog, di come questo spazio cambierà le regole del gioco della blogosfera?

Niente di tutto ciò. Aprò questo blog per una semplice questione egoistica. Guardando le mie statistiche su Goodreads noto che quest'anno ho letto 52 libri. Senza contare i fumetti.

Ma se mi trovassi diciamo ad un aperitivo e qualcuno mi chiedesse a bruciapelo (cosa rara) "che libri hai letto ultimamente?" non saprei bene cosa rispondere. Non è che leggo distrattamente, ma di primo acchito i libri che leggo non mi rimangono in testa. E questo mi amareggia.

Ho deciso quindi di scrivere per i libri che ho letto (magari non per tutti, magari solo due righe) delle opinioni a caldo in modo da non subire passivamente la lettura, non dimenticare tutto appena voltata l'ultima pagina (o chiuso il file se sono su Kindle). Voglio fare uno sforzo di valutare attivamente quello che ho letto, in modo che mi rimanga qualcosa dentro (e fuori, visto che scrivo in un "luogo" pubblico). Se poi quello che scrivo piacerà ad altre persone che avranno la buona volontà di leggermi e/o addirittura commentare, vorrà dire che la balzana idea di aprire un blog allo sbaraglio (e nel 2012!) non si sarà rivelata una completa perdita di tempo.

Si apre il sipario! (sì, sto usando un template di deafult, col tempo cercherò di rendere il blog un po' più personale, lo giuro!)

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