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martedì 27 novembre 2012

I senza-tempo

  • Titolo: I senza-tempo
  • Autore: Alessandro Forlani
  • Editore: Mondadori (Urania 1588)
  • Pagine: 216
  • Letto su: cartaceo 
  • Note: nel volume sono presenti anche due racconti, uno di Marco Migliori e l'altro di Dario Tonani









Il romanzo di Alessandro Forlani, uscito a Novembre 2012 nella collana Urania classica (per chi di voi fosse vissuto fino ad adesso su Marte, Urania è una collana mensile di fantascienza da edicola che esce, nel bene e nel male, ininterrottamente dal 1952) è riuscito nel non facile intento di far parlare di sè in lungo e in largo per la Blogosfera. Ne hanno parlato meglio di quanto potrò fare io Davide Mana su Strategie Evolutive e Argonauta Xeno sull'omonimo blog .

E' importante che il romanzo ottenga recensioni e discussione all'interno del fandom, perchè I senza-tempo è anche vincitore del Premio Urania, il più importante riconoscimento per la narrativa fantascientifica italiana, e del premio Kipple . Discutere di questo romanzo in un certo senso è quindi tastare il polso del livello della fantascienza in Italia.

Siamo di fronte a quello che gli inglesi chiamerebbero "novelette": il romanzo è infatti molto breve, 105 pagine. La brevità però non impedisce a Forlani di raccontare una trama compiuta, dove non manca una buona dose di azione e adrenalina e di tratteggiare in pochi ma efficaci passaggi il mondo in cui si svolge la vicenda. I senza-tempo si svolge in Italia (con buona pace di Fruttero & Lucentini, che sostenevano che non era possibile ambientare un romanzo di fantascienza nel Bel Paese), fotografata in tre scansioni temporali: nel 2012, 2024, 2036. Quello che salta subito all'occhio è che nell'Italia del 2024 e del 2036 quasi nulla è cambiato rispetto a 12 e 24 anni prima: niente mirabolanti innovazioni tecnologiche, niente cambiamenti sociali, l'Italia del futuro prossimo sembra calata in una bruma che mantiente tutto in stasi (il tema del tempo come avrete intuito è cardine dell'intera vicenda). Anzi, invece del progresso che di solito si associa al futuro, per Forlani ciò che attende l'Italia è un lungo e malinconico viale del tramonto: nessuna prospettiva per i giovani, malfunzionamento delle reti elettriche soprattutto in provincia e di Internet in tutto il paese, che diventa un medium in secondo piano rispetto all'onnipresente televisione.

L'Italia dei senza-tempo è un posto che prima di tutto ha perso la speranza, in cui intere generazioni si sono arrese (penso al personaggio di Stefano). E' un posto in cui i Senza-tempo, perversi negromanti che vivono in mezzo a noi, manovrano dietro le quinte e sono in grado più facilmente di altre epoche di mantenere lo status quo, di stringere le proprie grinfie sulla realtà. Ma il potere di stasi italiano è così forte che persino i Senza-tempo si sono arresi a vivacchiare in un'esistenza borghese, che viene minacciata dal risveglio di Monostatos, un Senza-tempo di altri tempi e altro linguaggio (per la precisione del Seicento), il cui unico scopo è l'assoggettamento di tutto sotto la propria volontà insaziabile.

Ad opporsi a lui tre giovani che già avevano incontrato Monostatos durante l'infanzia (una reminiscenza dell'It kinghiano) e una fotoreporter all'apice della sua carriera, per la quale deve ringraziare proprio il neo-risvegliato Senza Tempo.

La narrazione di Forlani è un po' schizofrenica: salta freneticamente nello spazio e nel tempo, anticipando o ritardando gli eventi. Nelle intenzioni dell'autore questo stile dovrebbe imitare il montaggio serrato che si ha nel cinema. Sicuramente il ritmo ne giova, ma ho trovato che il romanzo ne esca un po' sballato: la costruzione della tensione e della suspence è imperfetta, abbondano gli anti-climax. Forse è un effetto voluto ma potrebbe anche indicare qualche lacuna nel controllo della narrazione.

Forlani fa abbondante uso di immagini horror, quasi splatter: ma le descrizioni sono asciutte e soprattutto sono improvvise, nette, come la lama di un rasoio. Non indugia mai su qualche particolare sgradevole, non si abbandona mai all'autocompiacimento.

Forlani, come altri autori di fantascienza italiana, adotta un punto di vista essenzialmente pessimistico. Questo atteggiamento l'ho già riscontrato in Vittorio Catani e Vittorio Curtoni (qui la recensione di Dove stiamo volando), due pesi massimi della fantascienza italica e anche Valerio Evangelisti ci prospetta un futuro difficile: sembra che per la fantascienza nostrana la speranza in un futuro migliore sia praticamente nulla. E' probabile che, vista la situazione attuale, abbiano ragione loro, ma mi piacerebbe vedere nei nostri autori un atteggiamento più ottimista, più speranzoso. I momenti di crisi infatti spesso sono anche momenti di opportunità, ed è anche compito della narrativa dell'immaginario quale è la fantascienza tratteggiare futuri possibili dove non tutto va per il verso sbagliato.

Accompagnano il romanzo cinque racconti legati tra loro dalla presenza dei senza-tempo. Anche questi sono racconti cupi, in cui l'Italia è spacciata. Addirittura nell'ultimo racconto, All'inferno Savoia!, si evince come il destino dell'Italia fosse segnato fin dall' inizio.

Sarà l'influenza de "Il tempo è un bastardo" (uno dei migliori romanzi del 2012 sin qui), ma trovo che sarebbe molto interessante leggere una raccolta di racconti interconnessi tra di loro a tema Senza-Tempo. Trovo che il romanzo a mosaico sia un tipo di narrazione particolarmente adatto al tema del tempo.

Accompagnano il romanzo e i racconti di Forlani due ulteriori racconti, "Lo scambiatore" di Marco Migliori, vincitore del Premio Stella Doppia e "Suburbi@ Drive" di Dario Tonani. Il primo è un racconto di stampo classico con qualche influenza Dickiana, bello, il secondo ambientato sulla strada e dal retrogusto punkeggiante, che mi ha lasciato un po' freddino.

In conclusione, nel complesso dò al volume tre stelle su cinque, in attesa di leggere altro di Forlani.

mercoledì 3 ottobre 2012

Dove stiamo volando


dove stiamo volando  

 E' brutto iniziare un blog con una stroncatura, ma questo è quello che ho letto recentemente.
Qualche mese fa sono andato con la mia ragazza a Genova, a vedere una mostra di Van Gogh. Ad un certo punto passiamo davanti all'edicola e, quasi meccanicamente, butto un occhio allo spazio dedicato agli Urania. Mi cade l'occhio sulla copertina che vedete qui sopra. 

"Vittorio Curtoni, questo nome non mi è nuovo". Ripesco da qualche angolo della memoria: curatore della rivista di fantascienza Robot. Mi avvicino, prendo il libro e guardo la quarta di copertina: è compaesano (eravamo entrambi di Piacenza. Uso il passato perchè lui non è più tra noi, e io non sono più a Piacenza). La combo campanilismo-fantascienza me lo fa acquistare al volo.

Durante il viaggio di ritorno in treno, mi metto a sfogliare il volume, che appartiene alla collana "Urania Collezione": contiene un romanzo di circa 120 pagine (gli inglesi lo chiamerebbero "novelette") che dà il nome al volume, sei racconti e un saggio dal titolo esplicativo "La mia love story con la fantascienza" in cui Curtoni racconta la propria carriera lavorativa nel campo dell'editoria italiana di fantascienza. Ai testi di Curtoni si aggiungono una esaustiva bibliografia e il ricordo del curatore di Urania, Giuseppe Lippi, che dello scrittore piacentino recentemente scomparso era stato collega di lavoro e amico.

Decido di iniziare dal saggio: bellissimo,  scorre che è un piacere e racconta di come un Curtoni liceale e con la passione per la fantascienza sia riuscito a farlo diventare un lavoro. Il contesto è quello dell'Italia degli anni '60-'70, delle prime avventure editoriali in campo fantascientifico (considerato anche allora "robaccia di serie B"), delle prime convention dedicate. Curtoni racconta tutto dal suo punto di vista e senza peli sulla lingua: i propri successi e fallimenti, i litigi e gli errori e infine la sua uscita dalla scena pubblica, negli anni '90. Ne emerge un ritratto sincero, ma soprattutto una passione sconfinata per la fantascienza.

Con entusiasmo mi accingo quindi a leggere il romanzo e i racconti. E passano dei mesi. Ho infatti ripreso in mano "Dove stiamo volando" solo qualche settimana fa. Quando di un libro ho aspettative molto alte tendo infatti a rimandarne la lettura in attesa di un fantomatico "momento perfetto" (ne parlerò più approfonditamente in un post dedicato): naturalmente questo momento non arriva mai e finisco per arretrare il libro nella pila dei volumi da leggere.

Per "Dove stiamo volando" decido finalmente di rompere gli indugi e mi addentro nella lettura: delusione totale!

L'incipit di "Dove stiamo volando" (il romanzo) è rappresentativo dello stile di scrittura che Curtoni manterrà per tutta l'opera: raccontato in prima persona, con una prosa barocca che abbandona spesso e volentieri la descrizione di ciò che sta avvenendo per divagazioni poetico-oniriche e giudizi morali.

La storia è piuttosto lineare, ma del resto non è il fulcro del romanzo: Charles è un mutante (la cui mutazione verrà rivelata solo a metà storia) che decide di andare a vivere in una comune di mutanti a Nuova Parigi, detta il Ghetto (il cui nome già non invoglia al trasferimento in massa). Purtroppo per lui decide di andare nel posto sbagliato nel momento sbagliatissimo. La storia è ambientata in un'Europa post-Olocausto nucleare, in cui umani e mutanti vivono non proprio in sintonia.

La sensazione che si ha, leggendo il romanzo, è che Curtoni voglia, nell'ordine:

  1. Far vedere quanto è bravo a scrivere frasi ad effetto ("Guarda mamma, senza mani")
  2. Scrivere un libro di fantascienza che sembri un romanzo mainstream, come se si vergognasse di ammetterne il genere
Il risultato finale è un romanzo molto pretenzioso, il cui autore vuole disperatamente essere preso sul serio in quanto scrittore tout-court, non in quanto scrittore di fantascienza. I casi sono due, o si vergogna di appartenere al genere, oppure vuole disperatamente dimostrare che in un romanzo di fantascienza si può calcare la mano sull'aspetto formale, invece di raccontare e basta. Data la professione di amore per il genere che si evince dal saggio, propendo per la seconda ipotesi.

Forse il mio giudizio negativo risente anche di una mancata prospettiva storica: lo scritto è del 1972. In quegli anni la fantascienza era ancora vista, in Italia, come "navicelle spaziali e alieni tentacolari verdi" (non che la visione sia cambiata di molto, ma questa è un'altra storia). Naturale quindi che autori come Curtoni cercassero di allinearsi agli autori anglosassoni e osare di più dal punto di vista stilistico e filosofico. Il risultato però è fin troppo eccessivo: Curtoni sacrifica la narrazione sull'altare della poetica, ma lo fa in maniera vistosa. Per dirla con un'espressione in inglese: "He tries too hard".

Nei sei racconti la situazione migliora dal punto di vista della narrazione. Ho apprezzato molto la scelta, in alcuni racconti, del punto di vista multiplo per raccontare la storia. Anche qui è presente un certo gusto per la prosa barocca e per una narrazione opaca: spesso è faticoso capire cosa sta succedendo esattamente. Ma in questi racconti l'artificio narrativo funziona meglio che nel romanzo (penso soprattutto al racconto "La sindrome lunare"). Belle anche alcune chicche meta-narrative che Curtoni semina qua è là per ricordarci che stiamo leggendo un'opera di fiction e per scherzare sulla natura della parola scritta.

Il grosso limite dei racconti, almeno per me, è che le vicende trattate non sono abbastanza interessanti ("Ritratto del figlio"), o non riescono ad essere raccontate in modo che ci appaiano tali ("L'esplosione del minotauro"). A volte Curtoni si abbandona ad un voluto ermetismo ("La volpe stupita"), mentre in "Vento dal mare" l'elemento soprannaturale ed un pizzico di Horror non riescono a salvare un racconto che è soprattutto un esercizio di racconto realistico.

L'impressione finale di questa antologia è che a Curtoni, la cui occupazione principale era quella di traduttore ed editor, manchi quel quid che hanno i grandi scrittori e che non riesca a colmarla grazie alla sua cultura del genere. Oltre ad un incredibile senso di inferiorità nei confronti della letteratura in senso "lato"

In conclusione, con grande amarezza ho dovuto dare 1 stella su 5.
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